Atelier della Sposa San Marino

Ricomincio da me

 

 

“Come, poi dovete scattarmi delle foto? Ma non sono pronta, sono venuta così com’ero!”

Questa è l’unica preoccupazione di Carmen Para, quando si presenta alla sede di Idexa Web per la sua intervista; infatti, in un secondo momento, preferirà scegliere fotografie scattate all’interno del suo negozio. Qualunque altro argomento andiamo a toccare, invece, è un punto di partenza per riempirmi di entusiasmo e di aneddoti.

Anche i ricordi dei periodi più difficili, li vive con uno slancio e una dovizia di dettagli fuori dal comune, come se raccontasse una cronaca in diretta. Snocciola nomi e cognomi, ricostruisce date, dipinge davanti ai miei occhi un panorama in cui l’imprenditoria si sposa (è il caso di dirlo) con la passione, il divertimento e la consapevolezza di essere stata, per le clienti, un punto di riferimento importante in vista di un giorno speciale.

Ecco, preparare le ragazze a quel giorno speciale implica un background di tutto rispetto: anche dietro la realizzazione e la scelta di un abito che verrà usato solo per un giorno, c’è una storia. Una lunga storia fatta di esordi, conferme, sfilate, stiliste, creatività, ma soprattutto di passione viscerale che, sola, può spingere a mettersi e rimettersi in gioco.

E Carmen, in quel gioco, dà il meglio ogni volta.

 

Quando e come nasce l’Atelier della Sposa?

Nasce nel 1984, complice il fatto che la mia famiglia fosse proprietaria del locale. Di fianco c’era un negozio di bomboniere, gestito da mia sorella. Forse anche per questo ho pensato a vendere proprio vestiti da sposa, approfittando di un legame familiare in grado di evolversi in legame commerciale: i miei clienti sarebbero potuti diventare anche suoi, e viceversa.

Avevi una formazione specifica nell’ambito del commercio?

Macché! Avevo appena finito la scuola alberghiera, però mi ero resa conto che lavorare in quel settore non era semplice.
È una vita molto faticosa, figuriamoci poi negli anni del grande turismo di massa balneare: turni di notte, orari pesanti… l’idea non piaceva tanto nemmeno al mio fidanzato, che poi sarebbe diventato mio marito.

L’unico a consentire uno stile di vita meno frenetico sarebbe stato il Grand Hotel, ma lì il personale era già al completo.

Quindi hai avviato l’Atelier.

Con l’incoscienza dei diciannove anni, lo devo ammettere. L’unico negozio di sartoria fino ad allora presente a San Marino aveva chiuso da poco: il sentore generale era pessimo, avevo tutti contro. Eppure io ci credevo e insistevo. Alla fine mio padre si convinse e depositò l’agognata firma in banca, come garanzia.

Il primo anno vendetti quarantacinque abiti: un inizio incoraggiante, ma se avessi dovuto pagare anche l’affitto non sarebbero bastati a rientrare nelle spese. Nonostante la metratura del negozio fosse di soli 50 metri quadrati, avevo anche investito parecchio per un arredamento innovativo, basato su un gioco di arcate congegnato dall’architetto Emanuela Valli, una professionista eccellente nel suo campo. Venne gente da Milano a vederlo!

Non volevo chiedere un altro prestito alla banca, che imponeva interessi pesantissimi, così mi rivolsi ai miei nonni da cui ottenni condizioni migliori.

Negli anni successivi, come andò?

Con alti e bassi, come in qualsiasi attività, ma una tendenza complessiva al miglioramento. Frequentavo diverse fiere di settore e a un certo punto riuscii a ottenere gli abiti dell’atelier Aimée, un’azienda con sede a Castiglione delle Stiviere in provincia di Mantova, che al tempo era il top assoluto, la linea più “in” che esistesse.

Costava parecchio ma volli comunque inserirla e le clienti apprezzarono questa scelta. Era un’azienda innovativa, fu la prima del settore a scegliere la strada del franchising. E infatti nel 2000 mi chiesero se volevo essere parte della loro famiglia.

Una domanda impegnativa, per chi fino a quel momento aveva proceduto in autonomia.

Infatti non ho dato una risposta immediata, ho voluto pensarci. Le prospettive però erano buone, affiliarmi a un marchio tanto prestigioso sarebbe stato un passo notevole.
Mi dicevano: “adesso sei come un cecchino che sa sparare, ma non possiede un’arma adeguata”. E in parte era vero, io volevo colpire bersagli più lontani. Nel frattempo mia sorella dava segni di stanchezza nella gestione del suo negozio; così, quando chiuse, io ne approfittati per allargare l’attività usando anche i 70 metri quadrati del suo locale.

Servì un nuovo investimento, per rinnovare tutto?

Certo, fu come ricominciare da capo. Far parte di un franchising significa rispettare determinati standard nel modo di presentarsi, nel look, nell’arredamento. Affidai a Idexa Web la creazione di un sito internet professionale e aprii il nuovo negozio alla fine del 2002.

Vissi un periodo di grande successo: venivano anche persone da lontano, ricordo ad esempio che volle vestirsi da me la figlia della sarta personale di Pavarotti, a cui di certo non mancavano i contatti nell’ambito della sartoria!

Come referenti di Aimée assistevamo a sfilate allestite in location splendide, ad esempio grandi alberghi, in cui otto modelle indossavano i capi delle nuove collezioni in modo da fornircene un’anteprima e sentire i pareri di noi venditori.

Un ambiente collaborativo, quindi.

Assolutamente sì: c’era un clima di grande rispetto, si poteva discutere apertamente con le stiliste. Una volta Lucia Zanotti, che dell’azienda era la fondatrice e la sarta principale, realizzò un vestito seguendo una mia idea, e quel modello fu il più venduto dell’anno.

Da quel momento, la mia opinione divenne anche più importante per lei. L’azienda ci faceva perfino seguire dei corsi di marketing e psicologia, tenuti dal professor Giusti che era un autentico guru della comunicazione. Insomma ci fornivano tutti gli strumenti migliori. L’ultima sfilata si svolse nel 2014.

Poi cosa successe?

Fino a quel momento era andato tutto bene. Purtroppo, a un certo punto la Aimée iniziò a vivere un lungo periodo di crisi. All’epoca avevano 135 dipendenti ed erano determinati a non licenziare nessuno: contrassero dei debiti ma i problemi finanziari non accennavano a diminuire, così cercarono un socio che portasse nuova liquidità.

Lo trovarono in Sandro Veronesi (quello di marchi come Calzedonia, Intimissimi e altri ancora): lui investì nell’azienda e vi inserì il suo braccio destro, che come prima cosa fece il giro di tutti i negozi e si presentò ai rivenditori.

Dopo qualche tempo, fu chiaro che la coesistenza di due figure dirigenziali nella stessa ditta era difficile: i nuovi soci acquisirono ulteriori quote, finché Lucia Zanotti vendette l’intera azienda, dietro l’assicurazione (sempre rispettata) che non ci sarebbero stati licenziamenti.

A quando risale questa cessione e cosa comportò per te?

Risale all’inizio del 2015. Quando ricevetti la lettera di commiato di Lucia, io mi dissi: rimango anche con la nuova proprietà, magari funziona. Dopotutto, gli altri marchi di proprietà dei Veronesi andavano forte, e infatti era loro intenzione rifondare la rete del franchising, basandosi sul modello che avevano già sperimentato con successo.

Cambiarono nome, da Aimée ad Emé, mantenendo così solo la pronuncia del vecchio marchio, e portarono una serie di modifiche allo status precedente. Nel giro di un anno, molti rivenditori uscirono dal franchise; quelli che rimasero dovettero cambiare il modo di presentarsi dei punti vendita, arredamento compreso (per me era la terza volta!) e assistere all’inserimento di altre novità, tra cui una progressiva delocalizzazione che ci impediva di vantare un autentico made in Italy.

I prezzi erano imposti, le collezioni pure, zero spazio all’iniziativa del venditore. Mancava l’atmosfera quasi familiare a cui ero abituata, e anche dal punto di vista del fatturato le cose non funzionavano: in precedenza, su cento spose che entravano in negozio, erano cinquanta a prendere il vestito da me; all’inizio del 2018, erano venti. Decisi di uscire dal franchise, sistemai tutti i conti in sospeso con Emé e tornai per conto mio, come quando avevo iniziato.

L’ennesimo momento spartiacque.

Non fu facile: bisognava ricominciare tutto da capo, di nuovo. E nel frattempo i miei competitor avevano ovviamente guadagnato terreno. Avevo quasi voglia di vendere tutto e lasciar perdere, ma poi?

Non sono ancora in età da pensione e non so stare ferma. Da metà 2018 a fine estate, presentai un campionario misto, il meglio che riuscii a rimediare in poco tempo.
Rinnovai il sito internet Atelier della Sposa San Marino, in modo da offrire anche online un’immagine rinnovata. Poi venni a contatto con nuove aziende, tornai a frequentare alcune fiere, presi contatto con vari rappresentanti… e scoprii che la gente mi conosceva, sapeva del negozio, apprezzava la mia reputazione!

Fu una bella iniezione di fiducia che mi rinvigorì. Dopotutto, in tanti anni di lavoro ho vestito più di 3.000 spose, non è una cosa da poco. Adesso in negozio ho linee di tante nazionalità: ucraine, spagnole, italiane (tra cui alcune eccellenti come Alessandra Rinaudo, la stessa del programma “Detto fatto” con Caterina Balivo), e anche la Riki Dalal, un brand israeliano che mi dà moltissime soddisfazioni.

Quindi è la strada giusta.

Lo dimostrano i risultati: se, come dicevo poco fa, c’era stato un momento in cui riuscivo a soddisfare solo il 20% delle potenziali clienti, in poco più di un anno sono risalita fino al 37. E conto di tornare al 50.

Come ti muovi sul fronte della comunicazione?

Una volta c’erano i giornali specializzati: le future spose li studiavano pagina per pagina e poi decidevano su cosa orientarsi. Si acquistavano anche spazi pubblicitari alla radio o su altri mass-media. Adesso, l’85% delle ragazze usa lo smartphone per qualsiasi cosa, inclusa la ricerca dei vestiti (e per questo motivo è stato necessario che il nuovo sito fosse responsive, cioè consultabile comodamente anche da cellulare).

Nel mio settore, continua ad avere grande valore il passaparola: la cliente sente parlare dell’Atelier da una o più amiche, dopodiché visita il sito e infine viene in negozio di persona. Va da sé che la concorrenza è alta anche online: tutto è in continuo aggiornamento, serve un lavoro costante sulla SEO, in modo da ottenere un buon posizionamento nei motori di ricerca.

Sono presente anche su Facebook e su Instagram, che aggiorno quotidianamente. Ero nuova al mondo dei social, ma per fortuna lo staff di Idexa Web ha provveduto alla mia formazione in materia.

Esistono anche modalità promozionali specifiche di questo settore?

Alcuni organizzano i trunk-show, ovvero sfilate che si svolgono in determinati punti vendita, talvolta alla presenza degli stilisti, e consentono di visionare in anteprima le nuove collezioni e prendere appuntamento per le prove. Io nell’ottobre del 2018 ho organizzato una sorta di open day per mostrare la collezione 2019 e pubblicizzare il ritorno del negozio alla sua vocazione originale.

Sarebbe bello allestire una grande sfilata o un evento legato a un’azienda di rilievo, ad esempio la Riki Dalal che citavo poco fa: potrei invitare la loro stilista. Ma è difficile, i costi sarebbero proibitivi. E comunque, in questo ambiente, non è la pubblicità a fare la differenza.

E cosa è, invece?

È il servizio che ti impegni a offrire, che diventa un tuo marchio di fabbrica: quel “di più” che induce la gente a venire anche da lontano per vedere il tuo negozio.

È la capacità di fornire assistenza e personalizzazione, venendo incontro alle richieste delle clienti: modificare una spallina, sistemare un orlo, abbinare un accessorio… perché anche quelli sono importanti, lo si può notare dall’apposita pagina del nostro sito. È così che ogni abito diventa esclusivo e che io divento qualcosa di più di una commerciante: divento una vera e propria assistente.

Intervista a cura di Velma J. Starling